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Pillola n. 1. Riforma della filiazione – Responsabilità genitoriale

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Lo scorso 7 febbraio è entrata in vigore il D.Lgs. 154/2013, la norma, in materia di filiazione e di rapporti parentali, con la quale il Governo ha dato attuazione alla delega contenuta nella Legge 219/2012.

Dopo circa quarant’anni stiamo assistendo ad una nuova riforma del diritto di famiglia, non certo “epocale” come accadde nel 1975, ma ugualmente significativa, almeno nell’effettiva equiparazione de figli naturali rispetto a quelli legittimi.

Anzi, mi correggo, fra “figli nati nel matrimonio” e “figli nati fuori del matrimonio”, espressioni, queste ultime usate, però, con molta disinvoltura dal Legislatore, prima e dal Governo, dopo e che non tengono conto di casi particolari, come ad es. figli nati da un matrimonio successivamente dichiarato nullo.

Al di la della scelta terminologica, la vera novità risiede nel pari trattamento della prole e, quindi, dell’introduzione di un’unica disciplina in materia di filiazione, indipendentemente dal tipo di relazione che lega i genitori.

Nello specifico si parla di “unicità dello stato di figlio”e non ha importanza se il figlio sia stato adottato, sia nato all’interno del matrimonio o all’interno di una famiglia non tradizionale.

Nulla rileva, quindi, se i genitori sono coniugati o meno: il figlio, ad esempio, nato da una relazione adulterina o semplicemente da conviventi, avrà gli stessi diritti e gli stessi doveri (numericamente inferiori, rispetto ai primi), riconosciuti ai figli nati all’interno del matrimonio.

La distinzione fra figli legittimi e naturali (scusatemi l’uso della vecchia terminologia, ma la ritengo più pratica), però, permangono e si notano specialmente in ordine all’origine del rapporto di filiazione, che sorge, in modo del tutto automatico, per i figli di genitori sposati (in gergo, ex lege), ma che richiede sempre un atto di volontà o una pronuncia giudiziale, per i figli di genitori non uniti in matrimonio.

Fra le tante novità, quella che forse darà più filo da torcere agli operatori del diritto, sarà la “responsabilità genitoriale”, che ha sostituito la “potestà genitoriale”.

Il perché è facilmente intuibile, se si considera che il Legislatore ha preferito non descrivere il contenuto della nozione di responsabilità genitoriale, lasciando alla dottrina e, soprattutto, alla giurisprudenza, il compito di colmare questo vuoto, tenendo conto dell’evoluzione socio - culturale dei rapporti fra genitori e figli.

II cambio di terminologia avrà comunque delle ricadute pratiche, soprattutto sull’attuale modo di interpretare il rapporto genitori – figli.

La locuzione “responsabilità” è sinonimo di onere, di peso e si differenzia sicuramente dalla potestà che indica un potere.

La potestà genitoriale, infatti, evidenzia un rapporto di subordinazione, che vede i genitori occupare un gradino superiore, rispetto ai figli. L’ordinamento, infatti, riconosceva ai genitori un preciso potere da esercitare su altri soggetti, i figli, non già per perseguire degli interessi propri, bensì per tutelare gli interessi dei soggetti a loro sottoposti.

Il concetto di potestà, dunque, era affine a quello di potere: anche se esercitato in favore del figlio, rimaneva sempre un potere.

Con la responsabilità genitoriale, le cose cambiano: i genitori e i figli sono stati posti sullo stesso piano, tanto è vero che la responsabilità genitoriale non ha alcun limite temporale, a differenza della potestà, che permaneva fino al raggiungimento della maggiore età, da parte della prole.

L’art. 316 c.c., infatti, prevedeva l’assoggettamento dei figli alla potestà dei genitori, fino alla loro maggiore età o alla loro emancipazione.

La responsabilità genitoriale, secondo il Legislatore, invece, permane anche quando i figli diventano maggiorenni e vincola i genitori al loro mantenimento, ben oltre la maggiore età e fino a quando non raggiungono la loro indipendenza economica.

Oggi, con la responsabilità genitoriale, la fissazione del termine diventa superflua, tranne per due specifici casi: il primo, afferente il dovere del genitore di intervenire a tutela dei figli e, il secondo, il potere di gestione dei genitori del patrimonio dei figli, vale a dire:

  1. l’art. 318 c.c. che fissa nella maggiore età o nell’emancipazione dei figli, l’impossibilità per questi ultimi di abbandonare la casa dei genitori;
  2. l’art. 324 c.c. che limita l’usufrutto dei genitori sui beni dei figli, sempre al raggiungimento della maggiore età o dell’emancipazione da parte di questi ultimi.

Avvocato Gennaro Marasciuolo

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