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Legge Balduzzi: colpa lieve e colpa grave, un nuovo campo minato

Cosa è cambiato per la responsabilità medica con la Legge Balduzzi?

Poco o niente, nonostante molti parlano di “riforma”.

Invero, l’art. 3 della L. 189/2012 ha introdotto, per la sola responsabilità penale del sanitario, una scriminante o meglio una causa di esclusione della responsabilità, così che, in determinati casi, il medico non risponderà penalmente, ma potrà essere comunque condannato al risarcimento dei danni, in sede civile.

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Il Legislatore, nel tentativo di ridurre il contenzioso nei confronti dei sanitari e la pratica della c.d. “medicina difensiva”, ha previsto che l’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve.

La legge, quindi, non apporta alcuna modifica alle fattispecie penali astrattamente riconducibili all’operato del sanitario (omicidio colposo, lesioni colpose), ma introduce una causa di esclusione della punibilità, lasciando all’interprete, vale a dire, al giudice, l’onere di ricercare i criteri per valutare la condotta dell’agente (del medico o, più in generale, del sanitario), il nesso causale fra la condotta e l’evento infausto, nonché il criterio di discernimento del grado della colpa.

Nulla è, dunque, mutato rispetto al passato ad eccezione della circostanza che se il terapeuta si attiene alle linee guida e alle buone pratiche, risponde (penalmente) solo a titolo di colpa grave.

Il sanitario, allora, può stare tranquillo se agisce secondo quanto indicato dalle linee guida?

Se commette un errore, rischia ugualmente come in passato?

Di certo, l’osservanza delle linee guida crea un argine alle istanze punitive nonostante, però, da una parte, non sia sempre possibile seguirle, ma anzi sia opportuno discostarsi dalle stesse e, dall’altra parte, non tutte le linee guida possano definirsi attendibili.

Le linee guida, nella gran parte dei casi, non specificano analiticamente, passo dopo passo, gli atti terapeutici da compiere, ma dettano delle direttive che devono essere adattate al caso concreto e che possono essere anche disattese nei casi in cui, ad es., ci siano patologie o altre condizioni concorrenti a quelle previste, che richiedano, dei trattamenti atipici, diversi da quelli codificati.

In prima battuta, il sanitario dovrà valutare (come potrebbe fare il giudice in un secondo e non auspicabile momento) l’attendibilità delle linee guida in base:

* alle caratteristiche del soggetto, o della comunità che le ha prodotte;

* al grado di indipendenza da interessi economici condizionanti che hanno eventualmente accompagnato la loro stesura;

* al metodo adoperato per la loro formazione;

* al consenso che si è formato attorno alla stessa linea guida;

* allo scopo per il quale sono state formate (cura del paziente/risparmio di spesa della struttura sanitaria).

Al terapeuta, conseguentemente, si chiede oggi, più che in passato di essere avveduto ed informato, così da optare per la linea guida e, quindi, per la direttiva, più appropriata, ma senza automatismi, poiché dovrà rapportare la stessa direttiva sempre e comunque alla specificità del singolo caso clinico, dovendo anche disattenderla, coltivando soluzioni atipiche.

Non mancano, infatti, esempi in cui le linee guida dovevano essere disattese, per patologie concorrenti o a causa di condizioni avverse.

Non sono neanche da escludere i casi in cui è necessario disattenderle, perché redatte non tanto per codificare la migliore pratica per la cura del paziente, bensì per attuare vere e proprie logiche di risparmio e di efficienza economica della struttura sanitaria.

In questi ultimi casi, l’aver comunque seguito le direttive ha comportato e potrebbe tutt’ora comportare la condanna, in sede penale, del sanitario, nonostante la sua “buona fede”, non potendo far affidamento sulla causa di esclusione delle punibilità prevista dall’art. 3 della Legge Balduzzi.

Diversamente, se il terapeuta adotta direttive accreditate, che perseguono il principale fine di tutela del paziente, risponderà solo se la sua condotta è riconducibile alla colpa grave, in caso contrario, non dovrà temere alcunché dalla giustizia.

Allora, cosa si intende per colpa lieve? Quali sono i confini con la colpa grave?

La risposta non è agevole, poiché il sanitario si muove in un campo pieno di variabili e il diritto, al pari della medicina, non è una scienza esatta.

Il Legislatore, dal canto suo, non è stato di grande aiuto, poiché, pur avendone avuto la possibilità, non ha provveduto a fornire una definizione di colpa lieve e di colpa grave, lasciando alla giurisprudenza il compito di colmare questa lacuna.

Una cosa è certa, la graduazione della colpa (lieve – grave) con la Legge Balduzzi è stata per la prima volta utilizzata nella descrizione di una fattispecie penalmente rilevante, poiché, in passato, è stata sempre utilizzata non per valutare la sussistenza della responsabilità penale o meno di una condotta e, quindi, per l’accertamento dell’imputabilità o meno (colpevole/innocente), bensì, dopo, solo per graduare la pena.

Invero, la giurisprudenza penale, in passato, in ordine alla responsabilità dei sanitari, aveva fatto già riferimento alla colpa grave, punendo i casi di “macroscopica violazione delle più elementare regole dell’arte”.

I giudici, pertanto, hanno associato la colpa grave all’errore inescusabile, che può trovare origine:

- nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione;

- nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente;

- nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria.

Questo orientamento, alquanto risalente, traeva fondamento dall’art. 2236 c.c. che tutt’ora, in campo civilistico, riconosce la responsabilità non solo del medico, ma di qualsiasi professionista esercente una professione intellettuale se, nei casi in cui la prestazione ad eseguirsi implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, ha agito con dolo o con colpa grave.

Ma la giurisprudenza non è immobile, si evolve in modo costante così, da prima, ha limitato l’applicazione della norma civilistica in parola, alla sola violazione del canone della perizia, estromettendo i canoni della diligenza e della prudenza che ugualmente compongono la responsabilità a titolo di colpa e, successivamente, ha escluso qualsiasi rilevanza dell’art. 2236 c.c. nell’ambito penale.

Il motivo di questo cambio di rotta è stato giustificato dalla necessità di applicare un unico metodo di imputazione colposa in ambito penale e, quindi, non prevedere delle “eccezioni” per i soli medici. Conseguentemente l’indagine sulla colpa (grave/lieve) è stato relegato al momento della graduazione della pena.

Ma l’art. 2236 c.c. ha lasciato un’orma in campo penale atteso che se ogni riferimento è venuto meno, il criterio in esso contenuto è stato utilizzato comunque dai giudici come regola di esperienza per valutare l’addebito mosso al medico concernente l’imperizia, nei casi di emergenza o che presuppongono la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il tutto tenendo anche di debito conto del contesto in cui l’agente ha praticamente operato (Cass. Pen., Sez. IIV, n. 39592/2007).

Da quanto precede, sembrerebbe che la Legge Balduzzi abbia pienamente attinto dalla giurisprudenza, limitando, come indicato dall’art. 2236 c.c., la responsabilità medica ai casi di colpa grave e dolo, nonostante si siano seguite le linee guida. Se questa è, però, l’ermeneutica del Legislatore, si dovrebbe arrivare alla conseguente conclusione che la nuova normativa potrebbe essere applicata ai soli casi di imperizia e non ai casi di imprudenza e negligenza, così che il sanitario risponderà ugualmente a titolo di colpa lieve, anche se ha adottato delle linee guida accreditate dalla comunità scientifica.

Per valutare la condotta del sanitario (come per altri professionisti) e, quindi, discernere la colpa grave dalla colpa lieve, la giurisprudenza opera un confronto fra quanto posto in essere dall’agente concreto (il terapeuta) e quanto avrebbe fatto, nelle stesse ed identiche condizioni, l’agente modello.

Ne consegue, che più l’operato dell’agente concreto si allontana da quello che avrebbe posto in essere l’agente modello, più aumenta il grado della colpa.

L’agente modello, però, non viene idealizzato, ma, come già accennato, deve essere necessariamente “calato” nelle stesse condizioni in cui verteva il sanitario, allargando l’indagine e tenendo, quindi, in debito conto:

a)      l’esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari (l’inosservanza di una norma terapeutica ha maggior disvalore per uno specialista, che per un comune medico generico);

b)      le concrete difficoltà nelle quali l’agente ha operato (malesseri, shock emotivo, improvvisa stanchezza);

c)       la motivazione della condotta (trattamento terapeutico sbrigativo e non appropriato, trattamento svolto in ragione d’urgenza);

d)      l’assenza o meno di presidi adeguati.

Nulla di sostanzioso, dunque, è cambiato rispetto al passato. La Legge Balduzzi non ha dettato delle regole comportamentali, delle condotte da seguire per evitare l’insorgere della responsabilità penale, in capo agli operatori sanitari.

Questi ultimi, quindi, non hanno altra alternativa che affidarsi al proprio buon senso, alla propria professionalità ed alle proprie capacità tecniche, esattamente come avveniva in passato, con l’unica differenza che oggi, se la loro condotta ha prodotto un esito infausto (in caso contrario non parleremmo di responsabilità) non potranno essere perseguiti penalmente, se hanno adottato delle linee guida o delle buone pratiche accreditate e, soprattutto, se il loro operato può essere ricondotto nella categoria della “colpa lieve”.

Avvocato Gennaro Marasciuolo

Per chi volesse approfondire, consiglio la lettura dei miei post in materia di Legge Balduzzi e di responsabilità sanitaria, oltre che delle sentenze per esteso:

Cass. Pen. Sez. IV, 29/01/2013, n. 16237;

Cass. Pen. Sez. IV, 24/01/2013, n. 11493.

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